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Nell’ambito delle journées d’étude dedicate al tema “L’industria nelle Alpi, tra memoria e fenomeni di patrimonializzazione, dall’Otto al Novecento” organizzate dal LabiSAlp (Laboratorio di Storia delle Alpi dell’Usi) e dall’Università di Losanna, si è svolta il 9 novembre scorso a Sion presso l’Espace Provins la terza giornata del ciclo alla cui realizzazione ha contribuito la Médiathèque Valais di Sion.
Il titolo dell’incontro era “La memoria del lavoro: lo sguardo dall’interno”. Al centro dell’attenzione di questa giornata di studio erano i processi di trasmissione della memoria e della storia del lavoro industriale elaborati dagli attori direttamente coinvolti nel lavoro industriale: operai, tecnici, dirigenti, familiari.
Riguardo al tema generale del ciclo di incontri, che pone l’attenzione sui fenomeni di deindustrializzazione e dunque sulla memoria industriale delle comunità, gli studiosi intervenuti hanno cercato di dare una risposta a una serie di domande poste loro dagli organizzatori: che cosa resta, nel ricordo dei lavoratori e della popolazione locali, della quotidianità del passato industriale? Quali sono le correlazioni possibili tra memoria e territorio? Quali gli elementi di una realtà industriale ad essere valorizzati in senso identitario?
La prima relazione della giornata è stata quella di Mattia PELLI (Université de Lausanne) intitolata "Faire parler les murs. Voix de travail et d’émigration à la Monteforno de Bodio (Tessin)". Essa è iniziata dalla considerazione – proposta dallo studioso attraverso un breve filmato – circa la dimensione anonima della struttura della Monteforno, in ciò differente dal patrimonio industriale più antico. L’anonimia delle strutture è un dato significativo perché se il valore attribuito alle strutture dipende da un soggetto che vuole mantenerne la memoria, alla loro scarsa riconoscibilità corrisponderà un minore interesse conservativo.
C’è però anche un patrimonio immateriale nelle attività dell’uomo. La convinzione dell’importanza di ciò che avviene in un determinato luogo è direttamente proporzionale alla volontà di conservarne il ricordo. Ma anche in ciò la Monteforno svelerebbe un “punto debole” rispetto ad altri siti industriali. I soggetti per i quali la memoria potrebbe essere importante sono tre: i vecchi operai, le comunità locali e le istituzioni. Nel caso della Monteforno molti operai erano immigrati e in gran parte sono tornati ai luoghi d’origine e le indagini mostrano una tensione sotterranea tra i diversi gruppi di lavoratori, i ticinesi, gli italiani del Nord e gli italiani del Sud. Ma questo conduce al secondo soggetto che potrebbe desiderare di conservare la memoria, la comunità locale. In essa si sono sedimentati i ricordi legati alla concorrenza nei servizi sociali e alla xenofobia. Inoltre la comunità locale risponde al richiamo delle tematiche ecologiche che contrastano con le produzioni industriali di cui non si desiderano conservare né gli scarti inquinanti né la memoria.
Infine, per quanto riguarda le istituzioni, esse riflettono sul fatto che l’industria pesante ha finito il suo ciclo. Inoltre la Monteforno non attira turismo al contrario dei musei che parlano del passato agricolo del paese anche perché il lavoro come tema di riflessione è lontano dagli interessi delle istituzioni svizzere, non fa parte della costituzione materiale del paese. L’identità svizzera viene proposta dal livello istituzionale della comunicazione pubblica attraverso le figure degli agricoltori o degli artigiani, non con quella degli operai.
Ma proprio quest’ultima rappresentazione istituzionale della società svizzera diventa uno spunto interessante per lo storico e una buona ragione per conservare un patrimonio immateriale i cui testimoni sono ancora vivi e la cui memoria attende di essere raccolta. Quando ciò accade, però, si rileva immediatamente una contraddizione: il conflitto tra lavoro e proprietà è stato negato dalle istituzioni ma ha avuto le sue fasi e tale negazione è la continuazione di una pratica paternalista.
La testimonianza dei lavoratori illustra quali fossero le forme del lavoro, del rapporto con i colleghi e con i superiori. Le contestazioni della dirigenza, che portarono anche a discussioni intense sul ruolo dei sindacati sono un altro tema che affiora nella comunicazione di Pelli.
Ma il caso della Monteforno rivela anche aspetti problematici per quanto riguarda il lavoro degli storici: secondo Pelli essi si occupano di immigranti e di industrializzazione come se fossero argomenti separati, spesso senza ricordare che la maggior parte della forza lavoro europea è composta da immigranti. L’influenza della questione degli immigrati è sottovalutata anche nelle analisi della storia dei sindacati svizzeri.
E qui si manifesta una seconda contraddizione: la Svizzera è una nazione che nega il suo ruolo di terra di immigrazione. Alla Monteforno si ritrovarono due generazioni di immigrati, quella più antica del Nord Italia e quella del Sud. Per molti di questi lavoratori era il primo incontro con un’idea d’Italia, che mostrava il suo carattere conflittuale anche nelle pratiche della vita concreta. Gli immigrati del Nord cercavano di mimetizzarsi per evitare i pregiudizi mentre quelli del Sud che non potevano farlo dovettero sopportare il razzismo latente o manifesto degli ambienti in cui vivevano.
In conclusione Mattia Pelli ha sottolineato l’opportunità per la storia e per la percezione di sé della Svizzera, di un’operazione a largo raggio che doni al lavoro – alla sua storia ma anche alla storia dei conflitti e delle differenze – il posto che un tema così importante deve occupare nella costituzione materiale svizzera.
Il secondo intervento, di Pierre JUDET (Université Pierre Mendès-France, Grenoble) aveva per titolo "Une mémoire et un patrimoine utiles, inquiets et sélectifs : le cas de la vallée moyenne de l’Arve (Haute-Savoie)" e ha esaminato il caso di una valle, quella dell’Arve, appunto, che è ancora una valle industriale con i suoi 14.000 lavoratori. Il modello è quello di un distretto industriale simile al distretto di Prato ma dotato di una solidità maggiore rispetto alla controparte italiana e la cui memoria si è costruita nel momento stesso della costruzione della struttura industriale.
La media valle dell’Arve è da lungo tempo occupata dall’industria e tale lunga durata viene rivendicata. La questione posta da Pierre Judet è quella relativa al cambiamento della memoria e del patrimonio industriale. L’analisi è ruotata perciò attorno all’origine della industrializzazione e alle sue diverse fasi di sviluppo. Un primo momento è quello che va dalla rivoluzione industriale fino al 1914, poi si assiste a una seconda lunga fase che si protrae dalla fine della prima guerra mondiale fino al 1990 e, infine, dagli anni Novanta si apre una terza fase che si prolunga fino a oggi.
Esaminando la storia dell’industria della valle dell’Arve è immediato notare come tale passato (i cui inizi sono collocati negli anni venti del XVIII secolo) sia stato tenacemente negato dallo sguardo di coloro che arrivavano in valle provenendo dall’esterno. Persino un osservatore attento come Horace-Bénédict De Sassure, che sul finire del XVIII secolo aveva percorso a piedi la valle, ne ignorò la presenza. La prima analisi dell’attività orologiera nella valle dell’Arve è quella di un canonico autore di un dizionario storico-geografico dei comuni.
L’identità di Cluses, il maggior centro della media valle, distrutto da un incendio nel 1844, era concentrata nell’edificio monumentale della scuola d’orologeria cuore e centro di irradiazione dell’attualità e della memoria del lavoro. Ciò è tanto più significativo in quanto la “nebulosa” dell’orologeria era distribuita su un’area vasta ed era plurinazionale, derivando all’origine da una dislocazione delle attività imprenditoriali e artigianali/industriali del polo ginevrino.
Oggi la situazione viene rimessa in discussione dal cambiamento del sistema scolastico francese ma soprattutto dai cambiamenti determinati dalla crisi del sistema industriale. La migliore resistenza del distretto dell’Arve rispetto ad altri non deve nascondere le difficoltà locali, evidenziate anche dal fatto che la memoria e il patrimonio storico vengono messi in discussione e la coesione di tutto il sistema viene attaccata.
La scuola non gioca più un ruolo fondamentale e se ciò ha portato alla creazione del Musée de l'horlogerie et du décolletage de Cluses, altre istituzioni – come il municipio – hanno preso il controllo della memoria, ne’ sono chiari quali devono essere i rapporti tra agenzie diverse (il museo, il municipio, le famiglie, l’università, la scuola d’orologeria) che costruiscono e custodiscono la memoria in maniera diversa.
La terza relazione della mattinata è stata quella dell’antropologa culturale Roberta ZANINI (Università di Torino) dal titolo "Figli – e nipoti – della miniera: la memoria del passato minerario a Macugnaga e le sue articolazioni". La ricerca si iscrive nell’ambito del progetto interregionale etnografico italo-svizzero E.CH.I., dedicato alla salvaguardia e alla valorizzazione del patrimonio culturale immateriale e rivolto a verificare come si articolino, nelle aree di confine, le iniziative di valorizzazione della memoria storica.
Per quanto riguarda Macugnaga sono presenti tre differenti “memorie” alle quali viene attribuito peso e valore diverso. La memoria Walser è quella predominante, la memoria alpinistica non è predominante ma è una memoria condivisa, mentre la terza memoria, quella relativa alle miniere, è memoria recente e non condivisa.
La storia mineraria di Macugnaga incomincia nel XVIII secolo e si conclude nel 1961, quando un disastroso incidente diede alla direzione il pretesto per chiudere le miniere, ciò che ha determinato la necessità di una profonda riconversione dell’area. L’esplosione del turismo di massa contemporanea alla chiusura dell’attività estrattiva, ha consentito di trasferire gli investimenti nel settore del turismo alpino.
Per cercare di recuperare la memoria del lavoro in miniera si è formata recentemente l’associazione, Figli della miniera. Per non dimenticare Pestarena (Pestarena è la frazione in cui si concentravano gran parte delle miniere e delle attività estrattive di Macugnaga). Seguire i lavori dell’associazione è stato un modo per comprendere le dinamiche della gestione locale della memoria. L’identità walser, infatti, è predominante e ha preso piede a partire dagli anni Settanta quando sono stati strutturati i percorsi di valorizzazione di questo passato, realizzati localmente da due associazioni che hanno intenti e prospettive diverse. La storia di Macugnaga, secondo questa memoria dominante, inizia solo nel 1261 quando essa viene “colonizzata” dai walser. La forza di tale modello ha depresso la presenza di una memoria mineraria perché quest’ultima non era spendibile in termini turistici. I gruppi folklorici erano attraenti dal punto di vista turistico, la miniera no.
Da qualche anno una parte della popolazione ha pensato che fosse necessario resuscitare la memoria della miniera. Ma – si è chiesta la studiosa – la memoria di chi? La memoria di cosa? La memoria per chi (e perché)?
Per quanto riguarda la prima domanda occorre ricordare che partecipano all’associazione Figli della miniera tre diverse generazioni: i minatori (pochissimi e spesso lavoranti esterni alla miniera perché i veri minatori sono ormai quasi tutti deceduti a causa di malattie professionali), i figli dei minatori e i nipoti (pochi). Mentre la memoria walser è esclusiva di Macugnaga, la memoria di miniera è condivisa da tutta la valle perché tutta la valle dava braccia alle miniere. È una memoria di lutti, legata agli incidenti e alla silicosi. Così il senso del nome dell’associazione rimanda a un duplice legame con la miniera che da un lato ha nutrito i suoi figli, ma dall’altra è stata origine di drammi e di perdite.
L’associazione promuove differenti immagini della miniera e del minatore; in generale si tratta di una rappresentazione positiva fondata sulle qualità professionali positive dei protagonisti. Però le diverse generazioni privilegiano elementi diversi: i minatori insistono soprattutto sulla competenza professionale, l’esperienza, la capacità di capire i rumori della montagna. I figli (la cui età media si aggira intorno ai sessant’anni) sottolineano invece l’elemento del rischio, del pericolo, del dolore, del lutto e della perdita perché con tali esperienze essi hanno dovuto convivere. Nei nipoti, infine, prevale la curiosità per un passato che non hanno vissuto direttamente, il dovere ma anche il piacere della testimonianza, quello che la studiosa ha chiamato un “rimpianto positivo”.
All’interrogativo “memoria per chi?” la studiosa ha fatto notare che nell’incidente che portò alla chiusura della miniera morirono due sardi e due bergamaschi. Quella della miniera è, secondo una categoria psicologica e antropologica, una memoria introversa che ha come suo momento fondamentale e identitario la festa della patrona dei minatori, santa Barbara, che si svolge il 4 dicembre. Tuttavia l’associazione Figli della miniera sta cercando di portare all’esterno tale memoria attraverso il coinvolgimento delle istituzioni per ottenerne la valorizzazione. Promuove e diffonde materiale informativo con una finalità prettamente turistica. In tal senso essa cerca di presentare la miniera come oggetto patrimonializzabile. Tuttavia questo percorso è molto difficile perché – stante il grave momento di crisi economica – mancano le risorse economiche e le istituzioni non ritengono utile né possibile investire quelle poche a loro disposizione. Così, a Macugnaga l’unica miniera visitabile è gestita da un privato.
La quarta relazione: "Un’industria nelle Dolomiti bellunesi: la fabbricazione di occhiali tra memoria e patrimonializzazione" è stata proposta dall’antropologa Daniela PERCO (Museo etnografico della provincia di Belluno e del Parco Nazionale Dolomiti bellunesi). L’industria degli occhiali nasce alla fine dell’Ottocento nel Bellunese grazie alla compresenza di una serie di fattori: l’abbondanza di energia idrica e una forza lavoro a basso costo segnata da pratiche di migrazione a cui si aggiungevano la limitata incidenza del costo per il trasposto degli occhiali e delle materie prime, gli esigui investimenti iniziali, la presenza in loco di capacità artigianali diffuse e, infine, la rapida sedimentazione di abilità e competenze imprenditoriali.
Prima dello sviluppo dell’industria bellunese, l’emigrazione era stata fortissima verso Venezia dove si fabbricavano occhiali grazie alle vetrerie. Tra i migranti molti erano venditori ambulanti di pettini di osso e di altri piccoli oggetti. Proprio una famiglia di fabbricatori di pettini d’osso, i fratelli Frescura a cui si associa Giovanni Lozza, tra il 1877 e il 1878 comprano un mulino dove si produceva olio di noce per illuminazione.
I fratelli Frescura incominciano a montare occhiali importando il materiale dalla Francia: nel 1885 producevano 500 occhiali al giorno e altri articoli quali metri millimetrati. Quasi subito comprendono l’importanza della distribuzione e aprono diversi negozi per vendere i loro prodotti. Nel 1887 la fabbrica di occhiali viene ceduta a Carlo Enrico Ferrari il quale cambia il sistema di produzione, introduce una turbina, la luce elettrica e la galvano-plastica e produce astucci e scatole per occhiali.
Gian Luigi Fontana, che ha studiato l’industria cadorina, ha notato come già all’inizio del Novecento si sia creata una dimensione industriale che è quella del distretto produttivo che però rimane contrassegnato da investimenti dal basso e dall’assenza del grande capitale.
Nel 1961 Leonardo del Vecchio fonda la Luxottica e crea un polo industriale nell’agordino dove esistevano condizioni favorevoli per gli insediamenti industriali e nasce una costellazione di imprese che collaborano con Luxottica. Del Vecchio dà impulso alla produzione di occhiali metallici. Alla fine degli anni Ottanta si assiste ad un fenomeno di crescita dell’interesse per l’occhiale da parte delle case di moda e ciò consente un primo accordo tra Luxottica e Armani che preluderà a una serie di acquisti di marchi da parte di Luxottica, da Ray-Ban a Chanel.
Oggi Luxottica è leader mondiale nella produzione di occhiali con 3500 persone impiegate nella valle industriale e 65.000 dipendenti nel mondo. Il fatturato del 2011 è stato di 6,2 miliardi di Euro con 30 milioni di pezzi all’anno prodotti che corrispondono al 65% della produzione mondiale complessiva.
Luxottica affida la restituzione della sua immagine alla comunità locale attraverso un asilo e una fondazione che agisce a livello mondiale dispensando cure gratuite nel campo dell’oftalmologia.
Sia Fedon sia Luxottica dispongono di musei interni alle aziende. A pieve di Cadore il museo dell’occhiale, realizzato nel vecchio distretto produttivo, è stato voluto dalla Safilo ma anche da diversi enti pubblici e ha una sua originalità in quanto è un tentativo di rappresentazione della memoria dell’industria dell’occhiale sia attraverso le testimonianza rappresentata dal prodotto, sia attraverso le macchine impiegate nella produzione.
Andrea CAFARELLI (Università di Udine) si è occupato invece di illustrare il tema "Industria e lavoro in Carnia tra tradizione e innovazione: il caso della Secab". La cooperativa elettrica carniaca Secab è stata la prima società elettrica friulana strutturata come cooperativa. Essa ha sede a Paluzza, a nord di Tolmezzo, ed è attiva nel settore della produzione e della distribuzione dell’energia elettrica. Conta ben 2700 soci, possiede cinque centrali idroelettriche e produce 50 milioni di kw all’anno. Nata nel 1911, la Secab è un caso di studio per la peculiarità della sua forma giuridica ma anche perché fu una delle realtà elettriche friulane che sopravvissero alla nazionalizzazione del 1962. Nell’anniversario per i cento anni di vita della cooperativa, nel 2011, si costituì un “comitato per il centenario” composto tra gli altri da Ferdinando di Centa, dal geologo Corrado Venturini e dallo stesso relatore.
Il problema che il comitato si è posto è stato il seguente: come conservare la memoria del lavoro? Come storico dell’economia l’obiettivo del relatore era quello di concentrare l’attività sull’archivio ma gli organizzatori avevano altre necessità ed erano mossi da altre aspettative. Ciò ha costretto a ripensare a che cosa significasse lasciare una traccia del centenario.
Quali erano stati i cofattori che avevano permesso di arrivare al traguardo nei 100 anni? Tra questi spicca la centralità dell’uomo e del lavoratore. Si è dato dunque seguito all’opera di riordino dell’archivio anche per risolvere il problema dell’integrazione delle fonti in quanto molte di esse erano rimaste nelle mani dei dirigenti e dei lavoratori. L’obiettivo era quello di preservare informazioni tecniche ma anche quello di conservare emozioni e valori che non compaiono nella documentazione tecnica. Si è perciò deciso di dare spazio a lunghe chiacchierate – audio-registrate – con i responsabili, i dirigenti e i lavoratori della Secab dedicate alla loro attività, senza però stabilire degli obiettivi precisi. Nei luoghi di lavoro accanto alle relazioni produttive si costruiscono relazioni umane ed erano proprio queste relazioni che si volevano far emergere.
Il problema di un approccio che, pur rimanendo scientifico, potesse adattarsi alle richieste del comitato, ha dato origine a un lavoro più accessibile al vasto pubblico. Il volume Secab un secolo di immagini e di ricordi usa le immagini e le didascalie per trasmettere in modo meno elitario informazioni che altrimenti non sarebbero accessibili a un pubblico più vasto di quello degli specialisti del settore. Accanto a questo lavoro, tuttavia, si collocano le monografie scientifiche dello stesso relatore La cooperativa della luce del 2001 e I signori della luce del 2003.
In conclusione della sua relazione Cafarelli ha sostenuto che il ruolo del lavoro non può e non deve restare confinato alla sfera produttiva. Quando si parla di trasmettere la memoria bisogna aver presenti i destinatari e non solo i committenti e se da un lato la monografia di taglio scientifico rimane indispensabile dall’altro è lecito e necessario progettare e realizzare anche lavori più fruibili.
La storia della Secab è legata a quella del territorio che la circonda proprio in virtù del particolare settore in cui essa opera. Occorre quindi procedere alla scoperta del territorio e alla sua valorizzazione presso i giovani attraverso iniziative come quelle di mostre didattiche permanenti.
Ultimo relatore della giornata di studi è stato Sandro GUZZI (Université de Lausanne) il cui contributo intitolato "Terre, usines et parenté dans le Valais occidental – XVIIIe-XIXe siècle". Capire la classe operaia vallesana è centrale per la comprensione dei fenomeni economici del Vallese.
A fronte di un basso reddito rispetto al resto della Svizzera, dell’importanza rivestita ancora oggi dall’agricoltura, dei problemi delle industrie alpine ci si può chiedere se tale situazione sia un destino o il prodotto di una storia. I temi sui quali lo studioso ha focalizzato la sua attenzione sono dunque stati i seguenti 1) quali sono le specificità del caso vallesano? 2) regge ancora il mito di un popolo ostile all’immigrazione? 3) Qual è il rapporto tra agricoltura, parentela e industria? 4) Quale è stato e qual è il ruolo delle donne? 5) Quale il rapporto tra industria parentela e politica?
Il Vallese conosce una certa stabilità della popolazione nel corso del tempo senza grossi fenomeni di emigrazione. Anche l’industrializzazione è tardiva in Vallese e arriva solo con lo sviluppo della rete ferroviaria. La regione non conosce quindi la fase del tessile e lo sviluppo industriale si concentra invece sull’industria pesante, che può avviarsi grazie alla disponibilità di fonti energetiche garantite dai numerosi corsi d’acqua e a salari ridotti. In questo contesto la figura dell’operaio-contadino sembra essere determinante.
Tale figura è, in realtà, strettamente legata al contesto familiare. Il contadino-operaio non è una figura isolata ma fa riferimento ed è sostenuta dal gruppo famigliare. La famiglia, poi, e in particolare le donne, mantengono la direzione delle decisioni in merito alla cura del patrimonio agricolo. Ma qual è la genesi di tale modello sociale? Il contadino-operaio nasce nell’assenza di strutture di welfare. A tali mancanze si risponde attraverso il mutuo aiuto. Secondo tale prospettiva il possesso della terra è la condizione per ottenere il credito nei momenti di necessità ed è quindi considerato fondamentale, così come fondamentale è la condizione giuridica degli individui, in quanto è la precondizione che consente il possesso. Quindi la prima ondata dell’industrializzazione è legata a un intensificarsi dei legami parentali. La natalità del Vallese è la più alta della Svizzera e risulta legata non soltanto alla pratica locale del cattolicesimo romano, ma anche al ruolo che le donne hanno nel possesso e nel legame con la terra.
In Vallese le pratiche legate all’eredità collocano donne e uomini sullo stesso piano e ciò contribuì a fissare le famiglie al luogo d’origine della sposa. Nel 1750 – dunque in una fase che precede la prima rivoluzione industriale – solo il 23% delle coppie stabiliva il luogo di residenza della nuova famiglia presso il villaggio della donna contro il 47% che sceglieva il villaggio del marito. Cento anni dopo, nel 1875, il 34% delle coppie sposate viveva nel villaggio di origine della donna mentre solo il 37 % optava per il villaggio dell’uomo. Il ruolo della donna si modifica in modo significativo, dunque, con l’arrivo in Vallese della ferrovia e dell’industria.
Con il Novecento i fenomeni migratori che arrivano anche in Vallese sviluppano dinamiche complesse, in quanto spesso gli immigranti portano con sé dei comportamenti e delle attitudini sociali diverse da quelle locali anche dal punto di vista sessuale. D’altra parte questi gruppi di migrati non restano ai margini ma vengono integrati rapidamente.
Più che l’industria sono le miniere a rappresentare l’ambito nel quale e attorno al quale si sviluppano sia le pratiche di migrazione sia le resistenze delle élite e del clero. Queste ultime erano mosse dal timore di perdere il controllo sociale sui minatori, in quanto migranti e non legati al possesso della terra e dunque non trattenuti da forme di disciplinamento sociale conseguenti al loro ruolo di possessori e a contesti familiari stabili. Tra i minatori si svilupparono dunque delle forme di opposizione che diedero origine a un ambiente liberale e “contestatore” e nel quale si fecero strada opinioni anticlericali largamente diffuse.
La giornata di studi è proseguita nel pomeriggio con la tavola rotonda guidata da Gabriel BENDER e alla quale hanno partecipato Iolanda DA DEPPO (Museo dell’Occhiale di Pieve di Cadore), l’artista e scrittore Grégoire FAVRE, Anne PHILIPONA (Musée gruérien, Bulle), Gabriele ROSSI (Fondazione Pellegrini Canevascini, Bellinzona), Michel SILHOL (Association Naviscoses, Echirolles).
La prossima giornata di studio si terrà il 22 marzo 2013 a Losanna, e sarà dedicata al tema La memoria del lavoro: lo sguardo dall’esterno.