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L’industria nelle Alpi, tra memoria e fenomeni di patrimonializzazione dall’Otto al Novecento (Giornata II: pratiche di integrazione territoriale)

Autor / Autorin des Berichts: 
Roberto Leggero



Citation: Leggero Roberto, « L’industria nelle Alpi, tra memoria e fenomeni di patrimonializzazione dall’Otto al Novecento (Giornata II: pratiche di integrazione territoriale) », infoclio.ch comptes rendus, 2011. En ligne: infoclio.ch, <http://dx.doi.org/10.13098/infoclio.ch-tb-0016>, consulté le


Si è svolta a Mendrisio, nella sede dell’Accademia di Architettura, la seconda giornata del progetto “L’industria nelle Alpi, tra memoria e fenomeni di patrimonializzazione dall’Otto al Novecento”. Gli ideatori e gli organizzatori dell’iniziativa, articolata su cinque incontri, sono il Laboratorio di Storia delle Alpi dell’Università della Svizzera italiana e l’Università di Losanna, rispettivamente nelle persone di Luigi Lorenzetti e Nelly Valsangiacomo.

L’idea alla base delle giornate di studio, è sorta negli organizzatori riflettendo sull’apparente contrasto tra le immagini e le rappresentazioni del territorio alpino e le esperienze industriali che lo punteggiano, sulle diverse forme di tutela del patrimonio industriale e sulle discusse iniziative di museificazione e di patrimonializzazione anche delle strutture industriali più invasive come cementifici o acciaierie.
Nel primo incontro, svoltosi il 21 ottobre scorso, si è discusso dei concetti di “memoria” e “patrimonio” tenendo conto sia del fatto che il patrimonio industriale non ha sedimentato un sufficiente valore storico per poter essere sempre considerato un bene da tutelare, sia del comune sentire nei confronti della distruzione dell’ambiente naturale determinata dagli insediamenti industriali. La giornata ha inoltre permesso di mettere in dialogo ricercatori e operatori culturali legati a varie realtà museali.

Lo stesso fecondo dialogo tra mondo universitario e istituzioni culturali che si occupano di conservare e raccogliere testimonianze del mondo industriale alpino si è avuto nella seconda giornata. L’incontro del 23 marzo, infatti, è stato suddiviso in due momenti con una prima fase dedicata a cinque relazioni presentate da storici e ricercatori e una seconda fase svolta nella forma di una tavola rotonda a cui hanno preso parte cinque invitati coinvolti in vario grado in diverse iniziative di patrimonializzazione dell’eredità industriale.

I lavori della prima parte, sono stati aperti da Renata ALLIO (Università degli Studi di Torino), con una relazione dal titolo: Le fabbriche e gli imprenditori, locali e stranieri, nelle valli piemontesi tra Ottocento e Novecento, tesa ad analizzare gli atteggiamenti padronali, le reazioni della popolazione locale agli insediamenti industriali e le forme di integrazione territoriale messe in atto dalle imprese nel tardo Ottocento e nei primi anni del Novecento nelle valli alpine del Piemonte. Renata Allio ha distinto due fasi dell’industrializzazione alpina piemontese: la prima, avviatasi nel Settecento, era legata a un’imprenditorialità autoctona dotata di modeste risorse economiche e dedita a sfruttare risorse locali, per esempio le miniere. A questa segue una fase di industrializzazione tardo-ottocentesca nella quale intervengono sia capitali sia di tecnologie straniere e legata allo sfruttamento delle cadute d’acqua.
La relazione ha messo in evidenza i tenui legami tra le fabbriche insediatesi nella seconda fase in ambiente alpino e le popolazioni autoctone, riconoscendo l’esistenza di forme di paternalismo più importanti nel caso delle industrie rispetto a quelle presenti nell’ambito minerario.
In quest’ultimo caso lo “spirito di corpo” più forte tra i lavoratori, i salari più alti e le strutture necessarie alla vita in quota (dove si trovavano le miniere più importanti) rendevano quasi impossibili forme di paternalismo. Tuttavia, a parere di Renata Allio, l’industria alpina presenta delle forme paternalistiche attenuate rispetto ad ambiti urbani forse anche perché i nuclei familiari potevano attingere a risorse (alimentari, relazionali, solidaristiche) non disponibili in ambito urbano.
La relazione ha inoltre passato in rassegna alcune attuali forme di patrimonializzazione (impianti minerari, edifici industriali, ecc.) citando casi di successo ma anche esiti fallimentari dei processi di recupero. In particolare è stato presentato il caso della miniera Paola in Val Germanasca, un’operazione di recupero coronata da successo economico e che integra l’attività museale, visite guidate grazie al trenino interno e rappresentazioni teatrali che si svolgono nella miniera stessa sfruttando la suggestione dell’ambiente.

L’intervento di Casimira GRANDI (Università degli Studi di Trento), intitolato La memoria nascosta: l’industria nella storia sociale del Trentino (XIX-XX sec) , ha messo in evidenza come, al di là della pittoresca iconografia che ritrae un mondo alpestre intatto e vergine, spesso le comunità locali hanno avuto per più generazioni la possibilità di permanere nel contesto montano grazie alla quotidianità del lavoro nell’industria.
Non è facile, tuttavia, trovare traccia del passato industriale del Trentino. Molte testimonianze industriali sono state disperse, così come la memoria del lavoro. Tale perdita della memoria è ben illustrata dal caso – oggi pressoché sconosciuto – dell’industria del tabacco, coltivato nell’area più meridionale dell’impero asburgico, tra la valle dell’Adige e il lago di Garda. Ma si è persa anche la memoria del fatto che, nonostante tale industria, le aree meridionali del Trentino siano state contraddistinte da fortissimi flussi migratori, contrastati dal governo locale.
Con l’unificazione e poi l’avvento del fascismo si innestano sul territorio sia motivi industriali nuovi sia le premesse per l’oblio. È il caso dell’industria per la produzione dell’alluminio, il primo caso documentato in Italia di produzione industriale con morti e nascite di bambini deformi causate dall’inquinamento – informazioni negate e nascoste dalla autorità – ed è anche il caso di Rovereto. Qui sorse il più importante stabilimento del periodo fascista, la cosiddetta “fabbrica nera”, il cui nome richiamava il regime politico che l’aveva voluta, ma anche gli effetti inquinanti e mortali della produzione di piombo tetraetile per l’aviazione che lì aveva luogo. Ancora oggi i residui di tale lavorazione rappresentano un problema ecologico importantissimo.
L’intervento ha dunque messo l’accento sia sul tema di una “memoria nascosta”, ambigua e stratificata, sia su quello di un “lascito patrimoniale” paradossale laddove si scopre, come sta avvenendo, di avere ereditato dal passato non solo oblio (da cui si genera l’immagine edulcorata di un Trentino fissato nel trittico sci-mele-vino) ma anche scorie di lavorazione che ancora oggi producono morti.

Laurent TISSOT (Université de Neuchâtel) ha presentato una relazione dal titolo: Comment une compagnie de chemins de fer de montagne remodèle un territoire? Le Montreux Oberland Bernois (1901-1991). L’industrializzazione, secondo Tissot, è un fenomeno globale nel quale deve essere inserito anche il turismo. In tal senso, i processi di industrializzazione sono passati anche attraverso l’attività turistica. Nel caso della ferrovia Montreux-Oberland Bernois (MOB), essa ha contribuito a liberare dalla povertà una regione, le ha consentito di modernizzarsi e di industrializzarsi. Nello stesso tempo questo caso industriale ci propone la domanda: che cos’è “industrializzazione”? Quella realizzata grazie al MOB è, a parere di Laurent Tissot, l’industrializzazione di un paesaggio e, nello stesso tempo, un processo di patrimonializzazione del paesaggio.
Ma in che modo un fenomeno industriale cambia il paesaggio? Come lo adatta alle sue necessità? La scelta della compagnia fu, innanzitutto, quella di essere una linea che legava un territorio per il trasporto merci ma quando si è passati a privilegiare il trasporto passeggeri per fini turistici, è stato necessario enfatizzare in termini pubblicitari l’iscrizione del treno nel paesaggio, il suo essere parte di una “tradizione”. Così, anche il paesaggio è stato iscritto nel treno, grazie a forme di spettacolarizzazione del paesaggio stesso. Attraverso finestrini sempre più ampi e importanti dal punto di vista della proposta commerciale, il paesaggio viene messo a disposizione del turista che usa il treno come mezzo più efficace per “gustarlo”. Ma un ruolo importante del gioco imprenditoriale della compagnia è legato al recupero della propria storia imprenditoriale. Attraverso le stazioni ferroviarie la modernità era arrivata in aree periferiche della Svizzera e la coerenza stilistica delle stazioni poté essere sfruttata, nelle strategie promozionali aziendali, per mettere in evidenza la liaison con una storia di tradizione.
Oggi la velocità media dei treni che percorrono la tratta Montreux-Lenk è di 30 km orari, esattamente come nel 1901, ma il significato che si attribuisce all’attraversare in treno la Svizzera, oggi come allora, è all’insegna della modernità. Essa oggi si esprime – almeno in termini turistici – attraverso il recupero e la patrimonializzazione, di una interazione “antica”, lenta e “storica” tra il treno e l’ambiente alpino.

I lavori sono proseguiti con la relazione di Geoffrey PIZZORNI (Università degli Studi di Milano) dal titolo Extra ordinary Alessi: il ruolo sociale dell'impresa. Attingendo a fonti d’impresa, in parte ancora inedite, Pizzorni ha evidenziato il legame tra un’industria del settore dei casalinghi, l’Alessi, collocata sul lago d’Orta, e il territorio sul quale essa insiste. Quello del lago d’Orta è un distretto industriale assai importante in quanto è uno dei pochi collocati in area prealpina e coinvolge sia il settore del valvolame e della rubinetteria sia, come s’è detto, il settore dei casalinghi.
Dopo un’introduzione volta a mettere in evidenza le caratteristiche industriali di Alessi, e dopo aver svolto brevemente il tema della storia dell’azienda, nata negli anni Venti ma che ha conosciuto la massima crescita negli anni Ottanta, Pizzorni è passato ad analizzare il forte radicamento territoriale di Alessi che, nonostante le recenti delocalizzazioni, a Omegna occupa ancora cinquecento dipendenti. Gli Alessi hanno sostenuto economicamente molti progetti locali attraverso interventi non visibili dal punto di vista imprenditoriale. Nella maggior parte dei casi si è trattato di iniziative non collegate alla strategia di impresa ma determinatesi sulla base di rapporti diretti tra i titolari e membri della comunità. Gli aiuti distribuiti non sono stati mappati ed è difficile distinguere tra iniziative personali e attività di impresa.
Il caso Alessi mostra un ruolo sociale dell’impresa privo di contorni definiti. A parte le iniziative interne dell’impresa (come il fondo di utilità sociale “Giovanni Alessi” riservato a dipendenti o ex dipendenti o le borse di studio ai figli dei dipendenti), necessariamente programmate e contabilizzate, le attività a favore del territorio sono caratterizzate dall’assenza di programmazione, di sistematicità, di visibilità e di registrazione. Ciò rappresenta un problema per lo stesso management di Alessi, il quale sta tentando una ricognizione delle attività benefiche messe in atto dai titolari per poterle integrare nella comunicazione d’impresa.

A chiudere la prima parte della giornata è stato l’intervento di Alessandro MORESCHI (Fondazione Pellegrini Canevascini, Bellinzona e Université de Lausanne) intitolato La Fabbrica del Linoleum di Giubiasco. Patrimonializzazione d'impresa e territorialità industriale.
Moreschi ha iniziato la sua esposizione con un excursus storico dell’attività aziendale, dall’inizio del XX secolo, quando la Pirelli decide di investire nella costruzione a Giubiasco di una fabbrica per la produzione di linoleum a causa dei dazi sul lino presenti in Italia, fino alla dismissione della produzione e la delocalizzazione in Olanda e Norvegia tra gli anni Sessanta e Settanta. Nel 1921, con la caduta delle imposizioni daziarie, Pirelli abbandona la Svizzera. Nel 1928 la fabbrica confluisce in una holding continentale del linoleum. Dopo la seconda guerra mondiale si colloca il periodo di massima espansione degli impianti di Giubiasco. Moreschi si è chiesto quali legami si siano instaurati tra la fabbrica e il territorio anche a fronte del fatto che la struttura immobiliare sia pressoché interamente scomparsa.
Utilizzando quasi esclusivamente fonti d’impresa egli ha esaminato la partecipazione della fabbrica alla costituzione dell’Associazione svizzera dei commercianti del linoleum, le acquisizioni dei mulini per la produzione di farine lignee (1921) e della centrale elettrica di Gondo (1910-1932), alla realizzazione di corsi per posatori (1943), alla creazione della cassa per malattie (1914) e previdenza (1935).
La relazione ha messo in evidenza come, anche dopo la conversione della produzione con il passaggio a prodotti plastici e misti realizzati con fibre di amianto, la fabbrica continui a produrre fonti d’impresa legate al linoleum e la rivista aziendale presenti costantemente l’azienda come “la fabbrica del linoleum”. L’analisi delle fonti di impresa – a parere dello studioso – rappresenta di per sé un fenomeno di patrimonializzazione. Infatti oggi è possibile analizzare storicamente la produzione del linoleum non sulla base dei residui monumentali degli impianti, che sono stati distrutti, ma grazie al fatto che la fabbrica abbia tenacemente mantenuto vivo nella pubblicistica aziendale il suo originario core business.

L’incontro è proseguito con la tavola rotonda guidata da Orazio MARTINETTI (Radio della Svizzera italiana) che ha posto ai partecipanti una serie di domande di carattere generale: Bisogna salvare il salvabile del passato e poi, solo in un secondo momento, valorizzarlo oppure la tutela deve andare di pari passo con la valorizzazione? Vale la pena di ricordare tutto il passato industriale, per esempio anche i casi tragici della produzione mineraria o dell’amianto? E in questi casi specifici l’obiettivo è creare musei o un monumenti alla memoria, quasi una sorta di “musei dell’olocausto del lavoro”?

Nadège SOUGY (Università di Neuchâtel) ha tracciato un bilancio positivo dell’esperienza del villaggio francese di La Machine che, pur subendo la dismissione della più antiche miniere di carbone della Francia, ha saputo guidare positivamente i processi di costruzione e di valorizzazione della propria storia locale. Fintanto che la responsabilità della conservazione della memoria resti affidata alle comunità locali, queste possono trarne vantaggi sia identitari, sia economici, attraverso un riuscito connubio tra ricerca storica e valorizzazione patrimoniale del sito.

Anna PEDRONCELLI, dell’Associazione villaggio industriale Crespi d’Adda, ha illustrato gli obiettivi dell’associazione, legati alla valorizzazione, e in seguito alla tutela e alla conservazione del. villaggio, dal 1995 inserito nella lista Unesco dei siti dichiarati Patrimonio dell’umanità. L’associazione cerca di mediare lo “sguardo” e le necessità degli abitanti del villaggio e quelle dei visitatori esterni, sia seguendo con attenzione la produzione normativa del comune di Capriate San Gervasio (Bergamo) nel cui territorio si trova il villaggio stesso, sia cercando di evitare mistificazioni o fraintendimenti. Ad esempio, l’etichetta “archeologia industriale” spesso applicata a progetti da realizzarsi nel villaggio, non è mai stata accettata dalla comunità locale. La fabbrica è stata attiva fino al 2003 e perciò gli abitanti del villaggio Crespi non si riconoscono in quel concetto. Anche perché, suggerisce Anna Pedroncelli, spesso i progetti di archeologia industriale non tengono conto del patrimonio immateriale che, invece, per la comunità locale è importante quanto quello immobiliare.

Giovanni VACCHINO dell’Ecomuseo del Biellese, ha analizzato il recupero dell’ex lanificio Zignone (1878) che ha la particolarità di essere l’unico esempio funzionante al mondo di sistema di trasmissione "telodinamico". La telodinamia ha rappresentato, prima dell'avvento generalizzato dell'energia elettrica, una modalità di trasporto a distanza dell'energia. In collaborazione con il politecnico di Torino l’Ecomuseo del Biellese ha realizzato il progetto della “Strada della lana”, ha raccolto una delle più importanti biblioteche specializzate sull’industria e si propone come un centro di cultura. Vacchino, inoltre, ha spiegato la particolare struttura dell’Ecomuseo che è di tipo “diffuso”, cosa che ha consentito di collegare luoghi e quindi esperienze industriali e culturali diverse.

Giorgio BIGATTI della Fondazione ISEC - Istituto per la Storia dell’età contemporanea di Sesto San Giovanni ha analizzato la storia della trasformazione di Sesto, a partire dai primi anni del Novecento, da località di villeggiatura per l’alta borghesia milanese a zona industriale. Ha poi illustrato le attività dell’ISEC, nato come strumento di conservazione della memoria della politica e della cultura operaia e successivamente cresciuto per salvaguardare la memoria del lavoro e dell’industria. Oltre a condurre e promuovere la ricerca, gestisce un imponente fondo archivistico, le biblioteche tecniche delle più importanti aziende insediate a Sesto (Marelli, Falk etc.) e i patrimoni fotografici delle stesse (Breda). Bigatti ha messo in evidenza il rapporto problematico non solo con la memoria, ma anche con l’oblio. In tal senso appare significativo lo scarto tra la conflittualità che ha segnato l’epoca industriale di Sesto S. Giovanni e l’assenza di conflittualità che caratterizza la fase di dismissione industriale degli ultimi decenni. Le memorie (al plurale e non al singolare perché lo stesso oggetto rinvia a memorie differenti) vivono finché le persone e le comunità generano nuove conoscenze o altrimenti la memoria si museifica.

Gianmarco TALAMONE dell’Archivio di Stato del Cantone Ticino ha notato come una delle missioni degli archivi cantonali, e cioè la conservazione degli archivi d’impresa oscilli tra patrimonializzazione e inserimento nella memoria storica. Il compito degli Archivi è quello di costruire la memoria del futuro, ma questo obiettivo viene perseguito anche attraverso l’opera di “scarto”, cioè anche attraverso l’eliminazione di ciò che oggi è considerato non essenziale. L’archivista, pressato anche da necessità pratiche legate all’impossibilità di conservare tutto, deve decidere oggi cosa tenere e cosa “scartare”. Tale operazione condizionerà gli storici del futuro nel loro tentativo di ricostruire la storia dell’industria che è passato prossimo per chi operi oggi ma, che dal loro punto di vista, sarà invece un passato remoto.

La discussione seguita a questi interventi ha lasciato emergere come il successo dei processi di patrimonializzazione sia intimamente connesso al ruolo degli attori locali e all’importanza assunta dalle iniziative “dal basso”. Perciò elementi chiave, materiali o immateriali, per decretarne il successo sono stati conservati laddove la società locale desiderava rivitalizzare il tessuto economico e civile. Si potrebbe dire che si siano salvati tutti i “luoghi di vita” utilizzati dalla popolazione, sia che essi fossero davvero in uso (chiese, abitazioni, edifici pubblici afferenti alle antiche aree produttive) sia che si sperasse di vederli rinascere dietro la spinta di esigenze rivitalizzanti: conservazione del ricordo di una “competenza industriale”, apertura a nuove produzioni o a usi diversi degli edifici.

Al contrario, la Corsica sembra non voler ricordare l’attività estrattiva legata all’amianto perché evidentemente le comunità locali hanno ritenuto che in nessun caso si potesse generare nuovo sviluppo, vita e lavoro dalla conservazione di quella memoria. È stato rilevato, a tal proposito, che laddove la patrimonializzazione non sia possibile ciò non significa che la ricerca storica debba fermarsi ma, semplicemente, che essa non sarà propedeutica alla costruzione di un progetto imprenditoriale di valorizzazione del territorio.

Se i ricercatori non tengono conto della “speranza di vita” espressa dalle comunità locali, si possono generare equivoci e incomprensioni tra la ricerca e le comunità dal punto di vista di ciò che si ritiene utile per la valorizzazione del patrimonio industriale, così com’è accaduto per le miniere di La Machine, dove alcuni aspetti legati alla promozione pubblicitaria dei progetti turistici sviluppati, sono stati totalmente rigettati dalla popolazione.

Diversi interventi hanno poi messo in evidenza, facendo riferimento alla situazione francese o a quella italiana, come sia necessario anche l’intervento dello Stato sia per la gestione della memoria o dell’oblio: a Sesto San Giovanni la dismissione industriale è stata aconflittuale anche grazie a un grosso intervento di spesa pubblica, in Trentino il ricordo dell’industria del tabacco è stato eliminato dagli interventi di una politica industriale aggressiva nei confronti del territorio, messa in atto dallo Stato stesso.

La prossima giornata di studio è prevista per il 9 novembre, a Sion, ed è dedicato all’esperienza del lavoro e della fabbrica vista attraverso lo sguardo operaio e le testimonianze di quel mondo e sarà intitolata: “La memoria del lavoro: lo sguardo dall’interno”. Ulteriori informazioni saranno disponibili sul sito del Laboratorio di storia delle Alpi (www.arc.usi.ch/labisalp).

Event: 
L’industria nelle Alpi, tra memoria e fenomeni di patrimonializzazione dall’Otto al Novecento. Giornata II: Pratiche di integrazione territoriale / L’industrie dans les Alpes, entre mémoire et phénomènes de patrimonialisation, XIXe-XXe siècles. Journée II
Organised by: 
Luigi Lorenzetti (Laboratorio di Storia delle Alpi dell’Università della Svizzera italiana), Nelly Valsangiacomo (Università di Losanna)
Event Date: 
23.03.2012
Place: 
Accademia di Architettura, Mendrizio (TI)
Language: 
i
Report type: 
Conference