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L'industria nelle Alpi all'Otto al Novecento: La memoria del lavoro - lo sguardo dall’esterno

Autor / Autorin des Berichts: 
Roberto Leggero
roberto.leggero@usi.ch


Citation: Leggero Roberto, « L'industria nelle Alpi all'Otto al Novecento: La memoria del lavoro - lo sguardo dall’esterno », infoclio.ch comptes rendus, 2013. En ligne: infoclio.ch, <http://dx.doi.org/10.13098/infoclio.ch-tb-0060>, consulté le


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Le prime tre relazioni presentate nell’incontro di Losanna, ossia quelle di Daniele Maggetti, Gianni Haver e Pierre-Emmanuel Jaques hanno accentrato la loro attenzione su un settore specifico del mondo del lavoro, quello dell’industria turistica. Le relazioni di Pio Pellizzari, di Serge Rossier e di Anne-Marie Granet-Abisset, invece, hanno esplorato il rapporto del canto con l’agricoltura e la manifattura, della radio con l’industria e della televisione con la costruzione dell’immagine della fabbrica e del prodotto industriale.

La relazione di DANIELE MAGGETTI – che ha aperto la prima sessione di lavori della quarta giornata di studi del ciclo dedicato all’industria nelle Alpi –, ha presentato non solo una situazione di paradossale assenza dalla letteratura svizzera-romanda del XIX secolo, dell’attività industriale in senso proprio, ma anche di valutazione negativa dell’industria turistica. L’attenzione dello studioso si è focalizzata sulle opere di Eugène Rambert (1830-1886), Juste Olivier (1807-1876), Rodolphe Töpffer (1799-1846), Édouard Rod (1857-1910) ma le prime riflessioni sono state dedicate ad alcuni aspetti dell’elvetismo nella svizzera romanda. Tra le prime pubblicazioni a testimoniare e a sollecitare un “protonazionalismo popolare” vi sono gli almanacchi che consacrarono una sorta di inventario delle caratteristiche della Svizzera per rinserrare i legami tra i cantoni. Le Alpi venivano presentate attraverso elenchi di escursioni e una visione arcadica ed estetizzante del territorio, che sottaceva le attività di allevamento del bestiame mentre offriva un’immagine bucolica e stereotipata dell’agricoltura. Ne Les Alpes Suisses di Eugène Rambert, un insieme di testi dedicati alle Alpi e pubblicati in cinque volumi tra il 1866 e il 1875, il luogo centrale del discorso identitario svizzero e cioè proprio la montagna, viene rappresentato in forma idealizzata e stereotipica. A fronte di ciò Rambert traccia un giudizio molto netto per quel che riguarda il turismo: esso dà un’immagine sbagliata della Svizzera all’estero, le voci straniere sono illegittime, soltanto lo sguardo “interno” può restituire all’ “esterno” una visione corretta della realtà alpina svizzera. Con tutto ciò, scrive il Rambert: «je me ne fais d’ailleurs aucune illusion sur les conséquences morales que cette invasion peut avoir pour notre peuple montagnard. Mais de grâce, parlons raison. Est-il possible, oui ou non, d’écarter de nos frontières ce flot envahisseur ? (...) Non». Si tratta di discorsi che devono giustificare la propria condizione due volte minoritaria, politica e culturale. Montesquieu aveva teorizzato che vi è una continuità delle popolazioni con la terra e, in questa continuità, la montagna gioca un ruolo fondamentale. Le Alpi diventano l’elemento simbolico che riunisce popolazioni dotate di lingue e culture, anche religiose, diverse.

La poesia storica dei Poèmes suisses (1830) di Juste Olivier è senz’altro uno strumento di identificazione identitaria e insiste sul paesaggio alpestre come elemento fondamentale di ispirazione di un sentimento nazionale. In Jeune Helvétie (1879) la difficoltà e le fatiche dell’ascesa alpina diventano la rappresentazione dei valori morali di cui la Svizzera è portatrice: «Elève-toi par ton libre courage!/ Gravis tes monts, suis ton rude sentier,/ Et que ta robe, entre le noir nuage,/ brille plus blanche au loin que le glacier!/ Là, sur la terre, à tes pieds déroulée,/ jette en tout sens un regard fraternel,/ heureuse et fière, et bientôt consolée/ de ne grandir que vers le ciel». Tutta la letteratura alpina del XIX secolo è contraddistinto da un rifiuto del mondo urbano e dall’esaltazione del paesaggio alpino. Dal punto di vista estetico le formulazioni stereotipiche e i cliché eliminano la realtà mentre le metafore che insistono sull’austerità e la severità delle Alpi, servono a sedimentare la dimensione identitaria. Il progresso e soprattutto il turismo sono sentiti come elementi negativi e minacciosi per l’identità nazionale e per il valore simbolico e estetico riservato alle Alpi.

Rodolphe Töpffer si è spinto anche oltre, registrando tra le conseguenze negative del turismo, una trasformazione quasi antropologica delle popolazioni locali che diventano avide del denaro degli stranieri. Töpffer, utilizzando la metafora della vergine e della donna di strada, si scaglia contro i mercanti francesi che hanno mercificato la purezza della “ancienne Suisse”: «L’ancienne Suisse, c’etait une belle et pudique vierge, solitaire et sauvage, dont les appas, ingnorés de la foule, fasait battre le coeur de quelques vrais amants (...) Qui l’a trainée dans les rues, étalée aux boutiques, vendue pour quatre sous? (...) Oui, les marchands». E ancora, in merito all’industria dei souvenir, anch’essa giudicata negativamente in quanto espressione di una rappresentazione falsa del paese, Töpffer scrive: «Aujourd’hui Paris confectionne la Suisse, il l’emballe, il l’exporte, il nous l’expédie à nous-mȇmes». Töpffer arriverà a suggerire una sorta di protezionismo nei confronti del turismo.

Per quanto riguarda Eugène Rambert egli criticava i tentativi di modificare il Grütli per venire incontro ai desideri e alla ricerca del pittoresco da parte delle folle dei turisti inglesi, identificando la “petite prairie” con la Svizzera stessa: «Le respect de la Suisse s’attache à cette prairie».

Édouard Rod, infine, in Là-haut (1897) affrontava i problemi che si possono porre quando un villaggio doveva essere ricostruito in seguito a una catastrofe, sottolineando come ciò determini delle spaccature profonde tra i valligiani che si dividono tra quelli che vogliono riedificare all’insegna del progresso turistico e altri che si oppongono ad esso. Entrambi i gruppi, tuttavia, vengono sollecitati da una retorica affaristica e interessata: «Vous hésitez, vous tâtonnez, vous tergiversez, si bien que, sans l’incendie de l’automne, votre Vallanches resterait un trou pendant dix et quinze ans encore (...) C’est grâce au feu plutôt que grâce à vous si, dans deux ou trois ans, l’argent vient au paya comme l’eau descend à la Thôse au dégel ! Vous le ramasserez à la pelletée, tas de trembleurs! (...) Vous parlez de vos pères. Eh bien! S’ils vous voient, ils se diront: en voilà des gaillards qui ont de la chance».

GIANNI HAVER in apertura della sua relazione, ha sottolineato come l’editoria svizzera arrivi tardi alla realizzazione di periodici vicini agli esempi delle grandi riviste internazionali. Queste erano rappresentate soprattutto dalla stampa illustrata inglese che offriva una visione su paesaggi lontani, affascinanti ed esotici. Perciò si importavano in Svizzera un numero di giornali illustrati stranieri, decisamente sproporzionato rispetto alla popolazione svizzera. I primi tentativi svizzeri di offrire ai lettori un prodotto nazionale si segnalano per la convinzione che il paesaggio di montagna fosse una possibile risposta all’offerta della stampa d’importazione.

Per quanto riguarda però la stampa illustrata svizzera si può riscontrare una certa dualità nel mostrare il “qui” e il “fuori” perché è soprattutto il primo di questi due elementi ad essere l’oggetto della comunicazione. Ciò dipende anche dal fatto che la stampa illustrata d’attualità chiedeva l’adeguamento a novità tecniche legate alla fotografia “del fatto”, indispensabile in questo genere di pubblicazioni. Il settimanale più venduto tra le due guerre, la “Schweizer Familie” non si occupava di attualità, con l’eccezione del periodo della Prima guerra mondiale, ma anche allora presentando in generale l’evoluzione del conflitto. In Svizzera romanda “L’Illustré” (dal 1912) pubblicava servizi tedeschi tradotti e riadattati per i suoi lettori. Accanto a questi periodici si collocano anche “L’Abeille”, settimanale di Lucerna e il settimanale operaio “En familie”. L’ “Abeille” incomincia a pubblicare fotografie a colori negli anni Trenta ma ciò pone dei seri problemi editoriali. Ancora negli anni Cinquanta “Paris Match” impiegava una settimana per preparare i cliché a colori e perciò lo stesso numero usciva due volte, una in bianco e nero e una a colori. Infine la “Patrie Suisse”, rivista illustrata ginevrina pubblicata dal1893 e bimensile fino al 1927, quando divenne settimanale, è una produzione romanda e un progetto originale con molte fotografie. Haver ha concentrato la sua attenzione sulle immagini delle copertine dei periodici svizzeri perché attraverso di esse, “quasi come attraverso l’editoriale del direttore”, è possibile interpretare la direzione che la stampa illustrata svizzera stava intraprendendo.

In generale, nel periodo compreso tra le due guerre mondiali, la maggior parte dei settimanali romandi costruiscono la propria immagine presentandosi come “atemporali” e slegati dall’attualità. Essi presentano immagini piacevoli, spesso bucoliche, perché proprio tale dimensione si adatta molto bene a una stampa che non vuole avere relazione con l’attualità. “Patrie Suisse” presenta almeno una copertina su sette dedicata alla montagna. Il paesaggio è il primo dei temi dedicati al mondo alpino. È un paesaggio fortemente idealizzato che tende a costruire l’immagine della “Svizzera eterna”. Un’altra tematica legata alla rappresentazione del mondo alpino sono i personaggi: pochi i montanari con la barba e la pipa – ma questi, rigorosamente anonimi, rappresentano “tipi” umani diversi legati al territorio secondo una prospettiva visiva quasi antropologica – ma molti i bambini impegnati in diverse attività sportive di montagna. Immagini di villaggi sono largamente presenti e gli chalet fanno sempre parte del paesaggio fino a diventare, in questo tipo di illustrazione, simboli della montagna. Scene di vita alpestre legano i montanari alle loro abitazioni. La visualizzazione delle attività economiche presenta “la comunione tra uomo e animale” nello svolgimento delle attività quotidiane (per es. i cani da soccorso) e i mestieri implicano un’azione che veda come sfondo la montagna (per es. i venditori di giornali sugli sci, i cacciatori etc.). Altri temi importanti delle copertine sono quello religioso (necessariamente vago in un paese variegato dal punto di vista delle fedi, e dunque ribadito spesso attraverso un solo simbolo, la croce), quello militare attraverso fotografie che mostrano l’esercito impegnato nel controllo delle frontiere ma anche quello della patria che viene rappresentato simbolicamente soprattutto attraverso la bandiera.

Infine gli sport di montagna propongono un primo elemento di modernità in una rappresentazione arcaicizzante del mondo alpino. Il turismo è un altro elemento “moderno” ma si evita di mostrare il rapporto tra montanari e cittadini, come se questo non esistesse. Questi ultimi vengono fotografati mentre si impegnano in varie attività in un ambiente montano. Appaiono figure femminile che praticano attività sportive – ma legate più al tempo libero che allo sport in senso stretto – e personaggi famosi come il re del Belgio in vacanza in Svizzera.

L’industria non compare se non attraverso l’infrastruttura ferroviaria anche se spesso le fotografie lasciano solo immaginare il transito dei treni mostrando semplicemente i binari nella neve, ciò che consente di lasciare nuovamente una larga parte della copertina al paesaggio. Su oltre 1400 copertine prese in considerazione, ha concluso Haver, una sola tra esse presenta l’immagine di un’istallazione industriale in montagna.

Utilizzando diversi estratti cinematografici, PIERRE-EMMANUEL JAQUES ha impostato la sua relazione sul rapporto tra cinema e turismo notando come il cinema sia indubbiamente uno strumento utile ad attirare turisti benché sia difficile parlare di “cinema turistico”; è invece possibile individuare un “uso turistico del cinema”.
Buona parte del materiale esaminato dallo studioso ha riguardato filmati pubblicitari realizzati da aziende dai forti interessi turistici nell’ambito alpino nei settori del trasporto (ferrovie, funivie etc.). Jacques ha notato come già l’inaugurazione della linea del Gottardo avesse determinato una propaganda a favore del tunnel, soprattutto a Milano e nel milanese, che prevedeva anche delle proiezioni pubbliche ad illustrazione del progetto grazie alla lanterna magica.

Il primo filmato mostrato dal relatore, The suspension railways of the Wetterhorn, è rappresentativo di un tipo di produzione cinematografica concentrata sulle istallazioni e sulla tecnica a disposizione dei turisti e dei viaggiatori. Spesso in questi film – che utilizzano il sostegno economico delle strutture filmate – compare una bandiera svizzera utile a localizzare il luogo delle riprese ma anche la popolazione turistica viene “messa in scena” . Inoltre gli operatori tentano di offrire allo spettatore lo stesso punto di vista del turista per cui spesso la posizione della camera coincide esattamente con quella del passeggero.

La nascita dell’industria cinematografia svizzera fu dunque apprezzata in patria soprattutto per le sue ricadute sul turismo. La produzione cinematografica più recente si concentra su un punto di vista diverso rispetto ai primi esperimenti di “cinema per il turismo”. Essa restituisce una visione più generale dell’ambiente e del paesaggio ma anche dell’infrastruttura che si vuole promuovere come, per esempio, le linea ferroviarie. Queste ultime vengono contestualizzate attraverso immagini che restituiscono uno sfondo bucolico e idilliaco per poi ritornare a osservare i panorami dal punto di vista del turista. Il paesaggio e la stessa linea ferroviaria vengono mostrati in maniera insistente, soprattutto quando l’elettrificazione della linea ha richiesto lavori importanti. Un altro elemento caratteristico è l’attenzione alla presenza di hotel lungo la linea e alle stazioni in “stile architettonico svizzero” [il rilievo di elementi quali il paesaggio e la “coerenza stilistica” delle stazioni ferroviarie alpine nella propaganda delle compagnie ferroviarie era stata esaminata anche da Laurent Tissot nella seconda giornata di studio nel contributo Comment une compagnie de chemins de fer de montagne remodèle un territoire? Le Montreux Oberland Bernois (1901-1991)]. Solo a metà metà degli anni Trenta le diverse istituzioni svizzere incaricate della promozione turistica riuscirono a sviluppare un certo coordinamento.

L’ultimo spezzone cinematografico mostrato da Jaques riguarda proprio il periodo immediatamente precedente alla Seconda Guerra mondiale: si tratta di un film non turistico richiesto dal servizio svizzero di espansione commerciale e dedicato all’elettrificazione della rete ferroviaria. La macchina da presa mostra dapprima le grandi strutture che producono energia elettrica grazie allo scioglimento delle nevi dei ghiacciai per poi “risalire”, seguendo la linea elettrificata, fino alle vette di tremila metri. Nel frattempo la voce narrante evidenzia con l’enfasi retorica propria del periodo come grazie alla tecnologia elvetica e all’industria nazionale i treni possano raggiungere la sommità delle montagne con ciò rendendo evidente come la rappresentazione della vita industriale e turistica del paese fosse inevitabilmente legata a un momento politico preciso della storia europea.

PIO PELLIZZARI ha tratteggiato brevemente le funzioni e gli obiettivi della Fonoteca Nazionale Svizzera di cui è direttore per poi passare a distinguere tra tre tipologie diversi di canti legati al mondo del lavoro: le canzoni che accompagnavano il lavoro, le canzoni dei lavoratori e le canzoni sul lavoro e i lavoratori. Di questi tre diversi gruppi la Fonoteca conserva esempi del secondo e del terzo mentre il primo è quasi completamente perduto. Infatti, al primo gruppo appartengono i canti utili a ritmare un lavoro faticoso. La prima strofa veniva cantata da una sola persona a cui rispondeva il coro dei lavoratori. Il ritmo impresso al lavoro non era il solo elemento che entrava in gioco: la canzone donava anche uno stimolo al lavoro ma consentiva anche di sincronizzare i movimenti. L’andamento del canto era mono-tono e i testi erano spesso improvvisati sulla base dell’umore del solista o dell’attività specifica che si stava svolgendo. In qualche circostanza essi potevano avere anche dei legami con aspetti specifici della vita dei lavoratori come, per esempio, la miseria. Le donne nelle filande cantavano anche per memorizzare il motivo sul quale stavano lavorando ma, proprio perché erano canti così direttamente legati al lavoro, molti di essi sono andati perduti in conseguenza della meccanizzazione del lavoro che non li rendeva più necessari.

Ovviamente tali canti di accompagnamento del lavoro si trasmettevano oralmente e le loro uniche descrizioni scritte si ritrovano nei resoconti dei viaggiatori delle Alpi. In alcuni casi le melodie di questi canti sono “scese di livello” trasformandosi in canzoni dei bambini.

Le canzoni dei lavoratori invece appartengono a un diverso ambito. Si tratta delle canzoni care a diverse categorie di lavoratori in tutti i paesi del mondo: marinai, canottieri, schiavi, cantavano dopo il lavoro, alla sera o durante le feste. Questi canti non si potevano intonare durante il lavoro perché erano troppo complessi e la fatica del lavoro lo impediva. Inoltre si tratta di canti adatti a un coro e spesso il lavoro in montagna, anche quando era di gruppo, separava i lavoratori o implicava l’uso della bocca per essere compiuto (per es. nel caso di attività che comprendessero legature). I canti serali o di festa glorificano il lavoro e il legame del lavoratore con la natura. In essi scompare la fatica perché uno degli scopi è proprio quello di dimenticare e far dimenticare l’aspetto penoso del lavoro della giornata. Spesso tali canti presero una connotazione sociale e furono alla base delle canzoni politiche del XIX e del XX secolo e trasformandosi nei canti degli spazzacamini, dei minatori, degli operai, dei radicali, dei socialisti etc., diventarono canzoni “di classe”. Ciò produsse un cambiamento di funzione di tale espressione canora che passò da una dimensione prettamente lavorativa, ludica, “dopolavoristica”, a una dimensione sociale e politica.
La terza tipologia di canti è quella “sul” lavoro e i lavoratori Questi canti, proprio perché non direttamente legati ai processi lavorativi e/o produttivi, sono sopravvissuti nonostante l’industrializzazione. Essi conservano un’immagine tradizionale del lavoro (“non ci sono trattori in questi canti”) e gli esecutori spesso erano e sono cittadini completamente slegati dalle attività esaltate attraverso il canto. Molta musica alpina svizzero tedesca che ancora oggi si conserva e si canta è dovuta all’iniziativa dei cittadini. Le feste hanno un ruolo molto importante nella riproposizione di tale espressione artistica. Per esempio le “Fête des Vignerons” nate come feste dedicate ai vignaioli ora sono dedicati ai pastori e ai lavori alpini di cui restituiscono una visione idilliaca.

Tra le tradizioni musicali o canore sopravvissute vi sono quelle legate al vignolage (termine con il quale nel Cantone di Vaud si indica un accordo stretto tra il proprietario di una vigna e il vignaiolo): in Vallese il primo taglio delle vigne comuni a marzo era accompagnato, fino agli anni Settanta del XX secolo, da pifferi e da tamburi. In questo caso non erano direttamente i lavoratori a fare musica ma gruppi musicali che venivano ricompensati.

Anche la trebbiatura aveva i suoi ritmi musicali che vengono riproposti non più come strumento per il lavoro – che ormai da tempo non viene più eseguito a mano – ma come buon augurio per l’anno nuovo.

Infine la “Prière du soir”, canto alpino legato alle necessità di comunicazione, di segnalazione, a piccoli appelli alle forze ultraterrene oppure a richieste di protezione religiosa, ma contrassegnato da una certa ambizione estetica, è ritornato di moda nella Svizzera centrale. Le “preghiere della sera” vengono riproposte spesso da giovani anche non legati al mondo alpino, per ringraziare del buon andamento della giornata e per richiedere la protezione del santo del luogo o del momento dell’anno.

Che sia un canto d’insieme per guidare il lavoro, un divertissement, un’idealizzazione del lavoro, o voglia proporsi come espressione artistica, il canto popolare alpino non ha seguito l’evoluzione del lavoro, restando bloccato nel fornire un’immagine non meccanizzata, bucolica e mitizzata dei processi lavorativi.

SERGE ROSSIER ha presentato le sue ricerche a partire dalla analisi di un corpus documentario costituito all’ottanta per cento dagli archivi radiofonici di Losanna e per il restante venti per cento da quelli di Ginevra poiché questi ultimi contengono più materiali musicali rispetto a quelli relativi a interviste o servizi legati al mondo del lavoro e dell’industria.

Il contributo di Rossier ha avuto come suo epicentro la grande iniziativa del 1939 volta a dar voce ai principali attori economici e culturali della regione evidenziandone il valore per il resto della Confederazione sia per chiarire il ruolo della Svizzera rispetto al resto dell’Europa. Un primo documento sonoro ha presentato l’intervista al direttore di un’industria di produzione del cioccolato caratterizzata da toni enfatici ed encomiastici circa il valore nutritivo del cioccolato e dunque teso a chiarire l’importanza di quel tipo di produzione. Il cioccolato serve all’alpinista ma anche al soldato che lo mette nel suo zaino per avere una razione di energia pronta a sostenere il suo sforzo fisico; il prodotto allora acquisisce un perfetto valore strategico e patriottico in un momento politico nel quale si addensavano le nubi della guerra imminente. Questi documenti sonori, della durata di quattro minuti, risultano evidentemente non improvvisati. Il direttore intervistato legge un testo accuratamente preparato e vincolato a dimostrare il valore dell’industria vallesana per la nazione nel suo complesso.

Il secondo documento che Serge Rossier, ha proposto era dedicato alle miniere di Saint-Martin. Il servizio radiofonico proponeva una serie di brevi interviste a minatori le quali restituiscono una visione perfettamente “umana” e “normale” del lavoro in miniera. In realtà la condizione dei lavoratori era assai diversa da quella tratteggiata nel servizio ma in questo caso la mediazione e la proposta “ideologica” e normalizzante, non è affidata a un testo scritto ma alle domande dell’intervistatore che somministra le domande opportune per evidenziare aspetti umanizzanti e tranquillizzanti legati all’attività estrattiva. Lo stesso tipo di mediazione la si ritrova in un’emissione di varietà dedicata ad un’altra fabbrica di cioccolato. Nel corso della trasmissione viene intervistata a una delle prime operaie dell’azienda, ormai molto anziana. Le domande del giornalista tendono a mettere in evidenza la benevolenza e la superiore capacità imprenditoriale e previsionale del proprietario rispetto alla visione limitata delle operaie le quali, giunte ormai al termine della propria vita, si rendono conto solo allora di aver fatto parte di una storia di successo economico che non avrebbero in alcun modo saputo prevedere. Nel corso di una vita di fatiche era bastato loro avere fiducia nel padrone. Ancora una volta quella che si presenta come una semplice “fotografia sonora” della realtà risulta essere il frutto di una vera e propria costruzione.

ANNE-MARIE GRANET-ABISSET nell’ultimo contributo della giornata di studi ha tracciato un’analisi della rappresentazione dell’industria alpina attraverso il medium televisivo. Qual è la natura di questa rappresentazione? Come viene proposta ai telespettatori l’industria alpina svizzera? Anne-Marie Granet-Abisset ha sottolineato come la televisione trasmetta delle informazioni che non svaniscono ma possono essere riprese e produrre una narrazione e una memoria condivisa.

Occorre quindi individuare dapprima le parole chiave e i nessi tra le parole usate per classificare i servizi e le inchieste: industrie-Alpes, usine-Alpes, sono gli accostamenti più frequenti mentre straordinariamente basso per numero di occorrenze è l’associazione patrimoine industriel-Alpes. Altre parole chiave sono: grèves, conflict social, fermeture usine, incident, pollution.

Coerentemente con tali parole chiave i soggetti che vengono trattati sono gli uomini (medaglie di lavoro, industriali etc), le politiche industriali, i conflitti e gli scioperi (che assumono, soprattutto in alcuni periodi un ruolo centrale nell’informazione), gli incidenti, l’inquinamento ma anche le inaugurazioni e le esportazioni. Interessante, nelle emissioni televisive, l’attenzione per la cultura nelle fabbriche rappresentata soprattutto dai gruppi teatrali organizzati dagli operai.

Le attività mostrate nella trasmissione sono legate a uno schema dualistico e per certi versi bipolare: da un lato si ritrovano infatti le produzioni “classiche” (cioccolato, tessile, calzaturiero) e quelle innovative (i trasporti, l’energia nucleare). Nel passaggio dall’industria tradizionale a quella innovativa progressivamente gli operai scompaiono e alle immagini delle donne e degli uomini chini al loro posto di lavoro si sostituiscono immagini di macchine in azione. Quando poi l’intervistatore si rivolge direttamente a chi opera all’interno della fabbrica solo il direttore è individualizzato e riconoscibile dalle sottotitolazioni che riportano il suo nome e cognome mentre quando l’intervistato è un operaio l’indicazione è semplicemente “un operaio della fabbrica”.

A partire dal 1974, quando il tema della crisi diventa onnipresente, il vero cardine della rappresentazione del mondo dell’industria si sposta dalla “questione operaia” al costo del prodotto. Ciò ha comportato un’evoluzione della tematiche, del vocabolario e delle immagini.

Negli anni Sessanta del XX secolo i servizi televisivi dedicati all’industria si concentravano sui processi produttivi, mostravano come veniva realizzato il prodotto e di conseguenza chi lo realizzava. Negli anni 2000 si insiste invece sulla qualità, sui compratori e sulle tecniche di promozione del manufatto. In tal senso la televisione produce una narrazione selettiva, legata alla forma più che alla sostanza. Essa non costruisce una memoria reale ma al massimo una “promozione del territorio”. Da ciò l’importanza del ruolo degli archivi delle reti televisive per poter studiare e valutare in senso decostruttivo l’immagine di un territorio consegnataci dai media televisivi.

Alla tavola rotonda finale, per discutere delle tematiche trattate, sono intervenuti il presidente della Società Storica Romanda JEAN-HENRY PAPILLOUD (Médiathèque Valais, Martigny), che ha moderato i lavori, lo storico del mondo operaio CHARLES HEIMBERG (Université de Genève), il fotografo PASCAL KOBER redattore capo della rivista “L’Alpe” (Grenoble), il documentarista MARC ROUGERIE (Cinémathèque des Pays de Savoie et de l’Ain), lo storico contemporaneista FRANÇOIS VALLOTTON (Université de Lausanne), e lo scrittore JEAN-BERNARD VUILLÈME (La Chaux-de-Fonds).

Il prossimo appuntamento con le giornate di studio dedicate all’ “Industria nelle Alpi, tra memoria e fenomeni di patrimonializzazione, dall’Otto al Novecento”, è ad Aosta dove il 25 ottobre 2013 si terrà l’ultima giornata del ciclo dal titolo: Forme di patrimonializzazione.

Manifestazione: 
L'industria nelle Alpi dall'Otto al Novecento: La memoria del lavoro: lo sguardo dall'esterno
Organizzato da: 
Laboratorio di Storia delle Alpi, Università della Svizzera Italiana e Université de Lausanne
Data della manifestazione: 
23.03.2013
Luogo: 
Université de Lausanne
Lingua: 
i
Report type: 
Conference